L’uomo è un essere desiderante. Il desiderio è la sua forza, la sua energia, ciò che lo tiene in vita ma, paradossalmente, il solo modo di conservare il proprio io desiderante e di farlo prosperare, è quello di rinunciare alla sua soddisfazione. L’uomo, cioè, si afferma attraverso il desiderio, ma non attraverso la realizzazione del desiderio che, invece, sminuisce l’io, lo imprigiona e, metaforicamente parlando, lo uccide. La psicanalisi ci insegna che l’animale umano vive proteso alla ricerca della soddisfazione del desiderio: ricerca della felicità, del godimento, anzi, di un godimento assoluto ma, allo stesso tempo, nel suo profondo, si oppone con forza a tale realizzazione, poiché intuisce, seppur inconsciamente, che questa felicità assoluta, concretandosi, lo travolgerebbe, inghiottendo la sua esserità. Epicuro dirà che l’individuo si muove spinto dalla ricerca del proprio piacere e interesse ma che non è capace di raggiungerlo, nel senso che ad ogni desiderio soddisfatto subito se ne avvicenda uno nuovo, dando vita a una catena senza fine. Similmente, Sigmund Freud afferma che la differenza fra il piacere agognato e quello raggiunto, determina nell'uomo quel benevolo e vitale impulso che gli consente di protrarsi in avanti. In questo senso, il desiderio si definisce come perenne bisogno di una soddisfazione che la realtà non può offrire. Sembrerebbe quasi che l’obiettivo finale dell’uomo quale essere desiderante sia il desiderio stesso, il desiderio in quanto possibilità di desiderare. Infatti, se il desiderio non può essere raggiunto, pena il suo annientamento, significa che il desiderio una volta esaudito, è anche, in qualche modo, esaurito. Raggiungere il desiderio vale a dire, allora, far morire il desiderio e, di riflesso -dicevamo- l’io desiderante che lo effonde. Come nella metafora che attraversa le «Mille e una notte», le storie che la bella Shahrazad racconta al sultano altro non fanno che tentare di ripristinare un desiderio che ha perduto il senso della propria normalità e ogni notte, dopo aver trovato appagamento, taglia la testa all’oggetto del suo godimento, le sue amanti. Shahrazad curerà il sultano e si salverà dalla sua follia proprio educandolo o rieducandolo al differimento del desiderio che, continuamente rinviato, dopo mille e una notte, ritroverà la strada della normalità. Quando non siamo in grado di governare il desiderio, ci illumina Freud, il regno delle pulsioni, delle energie libere, prende il sopravvento, l'energia cerca allora uno sfogo immediato e non è disposta a tollerare alcun differimento della gratificazione; ed è lì che ha luogo il trauma che mette fuori uso il principio di piacere. La felicità, il godimento, allora, consisterebbero in un desiderare rinunciando consapevolmente al raggiungimento del desiderio stesso o, meglio, nella consapevole rincorsa verso un desiderio che sappiamo irraggiungibile; come se, annullando lo stato di incessante insoddisfazione che ci assorbe nella ricerca spasmodica dell’ennesimo oggetto di godimento, ci si liberi veramente e si possa prendere coscienza di quella cosa straordinaria che è il puro piacere dell’esistenza. Come bene scrive Peter Brooks, è lo stesso paradosso che viviamo nella relazione con la trama narrativa: l’emozione che proviamo in ogni storia consumata divorando le pagine del libro spinti dal desiderio di conoscere cosa accadrà nella pagina successiva (sempre la prossima), non trova pace se non alla fine, in quella the end in cui, però, insieme alla soddisfazione del desiderio, registriamo anche la sconfitta di quello stesso desiderio definitivamente scomparso, non più producibile. Il desiderio cerca, dunque, la sua soddisfazione spingendosi verso quell’altrove che lo attrae: la fine del libro, l’orgasmo, la felicità assoluta… ma ognuna delle soluzioni che può e sa trovare altro non sono, per lui, che una tragica condanna che ne determina la definitiva scomparsa. Così, se la vita è tale perché generata e alimentata dal desiderio, ogni volta che il desiderio si esaudisce è come se perdessimo quell’energia vitale che nutre l’esistenza -per questo siamo costretti a rinnovare il nostro spirito desiderante cercando subito nuovi miraggi cui tendere. In questo senso possiamo dire che il vero desiderio (più inconscio, più indicibile) che governa il grumo patologico che è in ognuno di noi è, di fatto, un desiderio di morte: il desiderio supremo di arrivare alla fine del nostro personalissimo libro; un desiderio che, tuttavia, quando la patologia rimane entro il recinto della apparente normalità, è quasi sempre controbilanciato da una spinta uguale e contraria che, invece di dirigerci velocemente lungo quella linea retta che porta alla sua soddisfazione, che porta al miraggio della felicità suprema, che porta al godimento assoluto, devia (o almeno ci prova) dal suo lineare destino e ci accompagna in un viaggio a zig zag, cercando, come possiamo, di rimandare il più possibile quella attrazione e quella voglia finale. Jacques Lacan chiama questa ipotetica felicità irraggiungibile, a cui il desiderio patologico tende, il «Godimento dell’Altro». È il godimento che il soggetto suppone nell’Altro, dove l’Altro è inteso come la struttura linguistica e culturale che ci attraversa e ci predetermina. L’essere umano, dice Lacan, nasce, infatti, nel campo dell’Altro, ed è a questo Altro a cui, quell’animale ammalato di linguaggio che è l’uomo, rivolge, fin dai primi istanti di vita, un'unica incessante domanda, seppur mascherata sotto molteplici e diversissime spoglie: “Mi desideri?”. Il desiderio che dà energia e senso all’umano nasce sempre nell’Altro, nel momento in cui questi mi riconosce, nel momento in cui mi fa sentire irripetibile e insostituibile. Per questo il bambino chiede all’Altro, celandolo dietro ogni domanda, di desiderarlo e glielo chiede nell’unico modo possibile: desiderando egli stesso il desiderio di lui che sta nell’Altro. Ma si tratta, ancora una volta, di un’illusione, di un desiderio destinato ad autoalimentarsi in una perenne ricerca di soddisfacimento che non andrà ad effetto. Perché questo desiderio di me che l’Altro dovrebbe covare e che io desidero scovare e fare mio, altro non è, evidentemente, che l’ennesima chimera di quella felicità assoluta dietro cui si cela il desiderio di morte cui accennavamo. Non potrò mai raggiungerlo, solo supporlo, per permettergli, così, di continuare ad esistere. Il desiderio è dunque, per antonomasia, il luogo dell’immaginazione, dove il sapere razionale tocca il suo limite e l’inganno mette in scena i suoi fantasmi facendoci credere che si possa davvero guadagnare il godimento assoluto. È un buco, oltre i cui bordi che ne determinano il perimetro, si affaccia il Reale con i suoi spaventevoli scenari che solo un’immaginazione continuamente immaginante, che sappia alimentare il desiderio senza soddisfarlo, è in grado di contenere e di curare. È il luogo della pornografia, ma non nel senso esplicito di immagini o scritti in cui si avvicendano rapporti sessuali manifesti. È la pornografia quale chimera essa stessa, figura mitica in cui, appunto, è possibile racchiudere tutte quelle situazioni in cui siamo sedotti a credere che quel desiderio di godimento assoluto sia effettivamente raggiungibile. In questo senso, non solo la pornografia è pornografica, ma la gran parte della realtà contemporanea che ci circonda è pornografica, così come sono pornografici i desideri che suscita -desideri che, semmai, trovano nella pornografia il loro più esplicito monumento, ma che si manifestano in molteplici e variegate forme non consensualmente pornografiche, ma tutte pregne di quel desiderio di felicità aeternam incessantemente stillato nella totalità delle pratiche cui si presta l’uomo post-moderno: dal consumo acritico di ogni genere di merce, attività, emozione, fino agli infiniti tentativi di rimozione della morte e delle sue appendici e sempre, sempre disperatamente in cerca di qualcosa che sta -appunto- al di là del desiderio, nel campo minato delle pulsioni in cui regna l’eterno ritorno all’uguale e, proprio come nella pornografia, una voce sussurra continuamente “Dai, ancora!”.
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